Condropatia rotulea, stop alla corsa, si continuano nuoto e bici (tempo permettendo).
Ormai sono passati dieci, quasi dodici anni. Incredibile. Stanco di pedalare sempre solo, nel 2001 mi iscrivevo in una società di ciclisti: la Jolly Europrestige (Jolly-Stroppa poi Jolly Nota) di San Mauro Torinese.
Certo, già pedalavo ma non avevo la più pallida idea di cosa fossero cicloturismo, gare in linea, mediofondo, granfondo e molto altro che negli anni successivi sarebbe diventata per me la quotidianità.
Il luogo dove la follia emergeva allo stato più puro era senz'altro il pullman usato per le trasferte. Soprattutto all'andata perchè al ritorno si era tutti troppo stanchi per parlare.
Correvamo il "Prestigio", ovvero una campionato di granfondo (lunghe gare, tutte sopra ai 150 km, in genere con molti metri di dislivello) sparse in tutto il centro-nord, La Dieci Colli di Bologna, la Nove Colli di Cesenatico, la Pinarello, la Maratona delle Dolomiti, la Granfondo della Vernaccia e molte altre. Spesso così nei fine settimana si organizzavano delle trasferte di due giorni.
Il pullman aspettava in Piazza Mocchino, a San Mauro.
Primo momento di delirio: sistemare le bici nel rimorchio. Negli occhi di molti si leggeva il terrore: "non la rigate. Trattatela bene. Vi prego... devo ancora finire di pagare il finanziamento".
Ognuno aveva infatti biciclette di valore inestimabile, il frutto di una vita di risparmi o di grandi debiti.
Come dimenticare le discussioni tra Giorgio, pensionato ex-operaio FIAT, e la moglie, sempre al seguito, attempata signora: "Ma come, Giorgio, vuoi di nuovo cambiare la bicicletta? Ma non dovremmo cambiare la Panda? Non ce la fa più" diceva lei. Lui scuoteva il capo, boffonchiava qualcosa in Piemontese e tornava a parlare della bici nuova.
Dopo eterni minuti di accurato stivaggio, chilogrammi di cartoni e pluriball e altri sistemi ingegnosi di imballaggio, si riusciva a chiudere il rimorchio e salire sul pullman.
La tensione saliva km dopo km.
I vecchi cominciavano a criticare la strada scelta dall'autista, che come sempre era un inetto del volante e incapace a scegliere la via migliore (magari dopo 30 anni di esperienza alle spalle).
Folto era il gruppo dei sonnecchianti che spesso, all'improvviso, si alzavano di scatto urlanto e battendosi il capo: "C...., ho dimenticato a casa le scarpe (oppure gli occhiali, il casco, le barrette, il contakm). Da quel momento era ansia, terrore puro e la corsa a parlare con Roberto Bergamo il presidente. Telefonate in tutti il globo e l'incertezza, fino all'ultimo, di poter rintracciare un sostituto dell'oggetto dimenticato. Personalmente non sono mai riuscito a portarmi dietro tutto e ho sempre dimenticato almeno un oggetto a casa. La soluzione l'ho poi trovata, anche se non sempre è stata delle migliori. Ricordo ad esempio di aver affrontato una gara con i mocassini (che, ovviamente, non c'era modo di agganciare o legare in qualche modo ai pedali), un vero calvario (anche e soprattutto per le prese per il sedere dei compagni).
Altro momento di alta ilarità era il discorso al microfono del Presidente: orari, organizzazione, auguri. Roberto era un grande e ci metteva veramente l'anima. Non era però un oratore di primo livello e ogni tanto scivolava in qualche strafalcione che faceva esplodere la platea in applausi scoscianti di cui non credo abbia mai capito il motivo (scrollava la spalle, si girava verso la moglie e la guardava interrogativo "che cosa avranno da applaudire?").
Ovviamente l'argomento principale era la gara del giorno successivo. Si sfogliavano le riviste (Granfondo, Cicloturismo), si studiavano le altimetrie e si ascoltavano con attenzione i consigli di chi aveva già partecipato a quella manifestazione. Si raccontavano le salite: il Manghen, il Pordoi, il Bracco, il Giau. Sul pullman sembravano tutte enormi e invincibili. Pensano che il giorno dopo sarei stramazzato a terra prima di raggiungere la prima vetta. Avevo così paura che poi, mentre affontavo quei tornati in gara, tutto mi sembrava più facile. Altri, meno testardi di me, si facevano convincere dai ciclo-terroristi e il giorno dopo non partivano proprio.
Eravamo persone di tutte le età, dai 25 anni ai 75, di tutte le estrazioni sociali e occupati in mestieri e professioni di ogni genere. Qualcuno parlava un italiano perfetto, altri non sapevano mettere in fila due parole. Eppure, davvero, eravamo tutti uguali. Tutti accomunati dalla stessa passione. I valori cambiavano ed erano tarati sulla passione comune. Laurea, diploma, salario, ricco, povero, lavoro o disoccupazione non contavano più nulla: il più stimato era quello più veloce, più resistente, quello che aveva più chilometri nelle gambe o che aveva scavalcato più montagne.
Eravamo alienati e fanatici.
In quei tre anni da granfondista ho visto più divorzi e separazioni dei dieci anni successivi. Un avvocato accorto avrebbe fatto un affare a distribuire biglietti da visita nei pacchi gara o nei parcheggi dei pullman. E' impossibile capire e convivere con la follia di un ciclo-pazzo.
Era impossibile continuare ad allenarsi in quel modo (10.000 km all'anno), gareggiare praticamente tutte le domeniche e costruirsi una vita familiare o sociale.
Be' cari ciclo-pazzi, non potete sapere quanto i vostri volti, le vostre bici-gioiello e le nostre fanfaronate abbiano riempito i miei sogni di questi dieci anni passati. Anche se sono fiero delle scelte fatte, della mia bellissima famiglia (non si può essere un granfondista, un medico, un padre e un marito contemporaneamente!), anche se rifarei tutto quanto ho fatto mi mancherete sempre.
Grazie per avermi fatto crescere e sognare così tanto.
Un pensiero poi a quelli che non ci sono proprio più (ultimo Franco il "giornalista", Sergione).
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