giovedì 27 febbraio 2014

Colli alpini: il Nivolet

Torino, 27 febbraio 2013 - bici 252.53, corsa 120.9, nuoto 24.3 km


RMN ginocchio destro: tutto nella norma. Bene. E' evidentemente un problema di postura. Ho comprato delle scarpe nuove e presto mi farò valutare da un podologo per mettere dei plantari.
Nel fine settimana riprovo a correre. Nel frattempo proseguo con corsa e nuoto. 
Oggi previsti fanghi in mtb nelle colline di Torino.




Il Nivolet:


- altezza: 2612 metri
- km (da Locana al colle): 41
- dislivello: 2115 metri

L'ho scalato una sola volta, il 14 giugno del 2012, con la bici da corsa. 
Era una giornata di sole, una di quelle perfette per questo tipo di escursione, senza una nuvola, senza vento e con una temperatura gradevole. Da giorni aspettavo con impazienza che sgomberassero la neve e che aprissero il colle al traffico. 

In realtà il Nivolet non è propriamente un colle, dal momento che sul versante valdostano non esiste una vera e propria strada. C'è un sentiero con il quale si può arrivare a Cogne, ma ci vuole la mountain bike.
Un gran peccato che non ci siano mai passati Giro e Tour, ma pare che in alto non ci sia abbastanza spazio per posizionare il traguardo.

Sentito raccontare nei miti di amici ciclisti, non l'avevo mai affrontato. Non ero mai riuscito a combinare con qualcuno ed era rimasto un sogno nel cassetto. Pur essendo a 45 minuti di macchina da casa mancava alla mia collezioni di vette e colli ciclistici.

Avevo ripreso a pedalare con più continuità da poco ma già maturavano in me quelle pessime intenzioni che mi spingono alla "grande impresa". Del resto la storia è sempre la stessa... basta "toccare" e la dipendenza riprende, come prima o più forte ancora.

Libero dal lavoro, alle 8 del mattino, caricavo la bici in macchina. Direzione Parco del Gran Paradiso.
Parcheggiavo a Locana.

Da solo, con uno zainetto contenente un cambio per la discesa e qualcosa da mangiare.

Affrontavo il fondovalle con un passo tranquillo, senza fretta e risparmiando il più possibile per la salita, quella vera.
Il prologo è sempre la parte più complicata, almeno dal punto di vista psicologico. E' la stessa sensazione del pre-gara. Prevale il dubbio di non essere all'altezza, di non potercela fare. Dubbio e ansia che si dissolvono appena comincia la corsa, o la salita, quando lo sforzo e le prime endorfine mi fanno sentire invincibile.


strada alternativa al tunnel

Prima di Ceresole c'è una lunga galleria: 3500 metri circa in salita. Noia e terrore del ciclista.

Dalla galleria comincia quello che per me è il tratto più duro. Per evitare la salita al buio, nel tunnel, giravo infatti a sinistra, imboccando la strada vecchia, alternativa. In parte asfaltata, in parte sterrata e comunque in pessimo stato. Faticosissima a causa del fondo e della pendenza. Uno slalom tra le buche e le pietre franate.
Di nuovo i dubbi prevalevano sul senso di invincibilità. Non ero nemmeno a metà della salita e già mi sentivo sfinito.
La maledetta strada vecchia rientrava in galleria per poi uscire nuovamente e arrampicarsi ancora.

Ceresole, finalmente. Qui mi fermavo a godere dello spettacolo del lago. La strada, la statale, proseguiva in falso piano, dolce, a salire. Riprendevo così fiato e forza.


Dopo il paese mi voltavo perchè mi sentivo osservato. Una volpe, al ciglio della strada, mi scrutava.

Si lasciava fotografare da vicino, per nulla intimorita. Quando poi si accorgeva che non avevo nulla da darle da mangiare, e che ero il solito imbecille con due ruote, si allontanava con molta flemma.

Dopo il mio momento da Piccolo Principe, riprendevo la salita, quella seria.
Tornante, dopo tornante salivo, sempre più su. Pendenza variabile tra l'8 e il 14%.
Attraversavo prati ancora chiazzati di neve e disturbavo decine di marmotte, sparse nei prati e sulla strada, poco spaventate dalle mie ruote.

Tappa al lago Serrù, altezza metri 2275, un piccolo lago artificiale. Poi ancora arrancare. Il ponte sul lago Agnel. Guardavo in alto scoprendo ancora una serie infinita di tornati da scalare.

Lago Serrù e Agnel

Una salita infinita. Non durissima ma veramente lunga.


Mi facevo scattare una foto da un vecchio scooterista sonnecchiante lì a prendere il sole in un punto panoramico. In cinque minuti mi raccontava tutta la sua vita. La nipotina, lo scooter, il giornale e ovviamente i suoi trascorsi da grande ciclista. Tutti quando parlano a un ciclista si dichiarano ex grandi ciclisti.

Salivo gli ultimi metri affiancato da mura di neve.

La vetta. Il tempo di dare un'occhiata all'altro versante, quello valdostano dove i laghetti erano ancora gelati, mangiare qualcosa e vestirmi di tutto punto. Nonostante il sole infatti in alto i gradi erano pochi e cominciavo a raffreddarmi.


Non è il colle più duro che abbia mai salito. L'Agnello, il Fauniera sono sicuramente peggio. E' però il più affascinante e panoramico che abbia mai affrontato, anche meglio dei passi dolomitici.

Ora studio la cartina e cerco altre imprese, mi riprometto però, questa estate, di riprovare, magari in compagnia di un altro ciclo-pazzo.



giovedì 20 febbraio 2014

Ciclopendolare polare

Chivasso, 20 febbraio 2014 - bici  164, corsa 117.2, nuoto 20.65 km

Tanto nuoto ma niente corsa. Martedì ho programmato una RMN del ginocchio... tanto per capire se posso caricare e ricominciare a correre.

Putroppo, almeno finchè non cambierò sede di lavoro, non sarò un ciclista urbano. Niente abbigliamento cittadino, borse laterali, bici pieghevole o da passeggio.

Lavoro a 23 km da Torino e sono tutti km di pre-collina e statale. La bicicletta da corsa è d'obbligo, a meno di metterci 2 ore.

Ogni tanto però ci provo e mi maschero da ciclopendolare.

Sveglia alle 5.45 (buio e silenzio assoluto), fuori e dentro casa. Saluto Francesca che nel dormiveglia non capisce perchè mi sia svegliato così presto e cosa stia facendo in piena notte, vestito da ciclista.

Alle 6.30 sono in garage, in tenuta polare. Attacco le luci al led intermittenti (anteriore e posteriore) e comincio a pedalare.

Fa un freddo cane. Guardo il Polar (questa mattina un nome molto appropriato): 2 gradi che scenderanno a zero lungo la piana di S. Raffaele.

Fino a S. Mauro buio e poi le prime luci dell'alba. Sopra le stelle e una bella luna piena.

Nei primi chilometri è guerra. Vera trincea. La rabbia automobilistica è in crescita. Ancora non c'è traffico ma sono già tutti incazzati. Intolleranza totale. Non mi concedono una striscia di strada di un metro, a destra. Non sopportano di dover deviare di pochi centimetri le traiettorie delle loro Punto.
Suonano il claxon. La prima suonata la tollero ma alla seconda scatta il dito medio...

Dopo Sassi le auto si diradano e il traffico si concentra nell'altra corsia, in direzione della città.

Lungo la strada incrocio due o tre ciclisti, vestiti come palombari, ammiccanti con i loro led.

Pedalo e spero che con l'alba arrivi qualche raggio di sole e un minimo di tepore. Macchè, con l'alba arriva la nebbia. La visibilità è buona (quando gli occhiali non si appannano, ovviamente) ma la temperatura è scesa ulteriormente.
Ho scelto i guanti da mezza-stagione e ho freddo alle mani. Muovo le dita per mantenere la circolazione ma non basta.

Dopo 45 minuti e circa 30 km/h di media sono in Ospedale, ibernato.

Mi sgelo sotto la doccia e comincio a lavorare.

E' stata dura ma ora guardo fuori, c'è un bel sole e al ritorino, questo pomeriggio, sarà un altro pedalare.


giovedì 13 febbraio 2014

Canavese e pirati

Torino, 13 febbraio 2014 - bici 196.84, corsa 115.3, nuoto 16.9 km

Oggi bici, finalmente.
Freddo, un pallido sole e nuvole, persino qualche goccia di pioggia. Insieme al Capitano e a un suo amico, Gianni. Intorno a Chivasso, un itinerario (Libero 13.02.2014 14.11) di cui avevo qualche reminiscenza da vecchie cicloturistiche.

Una cinquantina di km a 27 km orari di media. Non male, per essere una delle prime uscite della stagione.



Il ginocchio ha retto bene ma sento di non poter ancora riprendere a correre.

Si chiaccherava di ciclismo, amici ciclisti e grandi salite. E' bastato citare il Santuario di Oropa per rallentare un po' il flusso dell'entusiasmo e permettere l'arrivo di un'ombra di tristezza. Oropa, una delle salite del Pirata, e domani è San Valentino,10 anni dalla morte del Pirata.

L'ho visto correre e devo a lui l'acquisto della prima bici da corsa, una bianchi con i colori della Mercatone Uno.
E' chi mi ha contagiato e fatto ammalare di questa malattia fatta di strada, ruote e pedali.

Così me ne frego di sembrare retorico e non mi importa di essere banale: era il 14 febbraio del 2004, non era uno dei periodi migliori della mia vita e la morte di Marco Pantani ha segnato in modo indelebile quel periodo.

Che peccato, davvero.





lunedì 10 febbraio 2014

Un pullman di pazzi

Torino, 10 febbraio 2014 - bici 147.8, corsa 115.3, nuoto 13.85

Condropatia rotulea, stop alla corsa, si continuano nuoto e bici (tempo permettendo).


Ormai sono passati dieci, quasi dodici anni. Incredibile. Stanco di pedalare sempre solo, nel 2001 mi iscrivevo in una società di ciclisti: la Jolly Europrestige (Jolly-Stroppa poi Jolly Nota) di San Mauro Torinese. 
Certo, già pedalavo ma non avevo la più pallida idea di cosa fossero cicloturismo, gare in linea, mediofondo, granfondo e molto altro che negli anni successivi sarebbe diventata per me la quotidianità.


Eravamo un centinaio e tra tutti noi non credo che ce ne fosse uno completamente sano di mente.

Il luogo dove la follia emergeva allo stato più puro era senz'altro il pullman usato per le trasferte. Soprattutto all'andata perchè al ritorno si era tutti troppo stanchi per parlare.

Correvamo il "Prestigio", ovvero una campionato di granfondo (lunghe gare, tutte sopra ai 150 km, in genere con molti metri di dislivello) sparse in tutto il centro-nord, La Dieci Colli di Bologna, la Nove Colli di Cesenatico, la Pinarello, la Maratona delle Dolomiti, la Granfondo della Vernaccia e molte altre. Spesso così nei fine settimana si organizzavano delle trasferte di due giorni. 

Il pullman aspettava in Piazza Mocchino, a San Mauro.

Primo momento di delirio: sistemare le bici nel rimorchio. Negli occhi di molti si leggeva il terrore: "non la rigate. Trattatela bene. Vi prego... devo ancora finire di pagare il finanziamento".
Ognuno aveva infatti biciclette di valore inestimabile, il frutto di una vita di risparmi o di grandi debiti.
Come dimenticare le discussioni tra Giorgio, pensionato ex-operaio FIAT, e la moglie, sempre al seguito, attempata signora: "Ma come, Giorgio, vuoi di nuovo cambiare la bicicletta? Ma non dovremmo cambiare la Panda? Non ce la fa più" diceva lei. Lui scuoteva il capo, boffonchiava qualcosa in Piemontese e tornava a parlare della bici nuova.


Dopo eterni minuti di accurato stivaggio, chilogrammi di cartoni e pluriball e altri sistemi ingegnosi di imballaggio, si riusciva a chiudere il rimorchio e salire sul pullman.

La tensione saliva km dopo km.

I vecchi cominciavano a criticare la strada scelta dall'autista, che come sempre era un inetto del volante e incapace a scegliere la via migliore (magari dopo 30 anni di esperienza alle spalle). 

Folto era il gruppo dei sonnecchianti che spesso, all'improvviso, si alzavano di scatto urlanto e battendosi il capo: "C...., ho dimenticato a casa le scarpe (oppure gli occhiali, il casco, le barrette, il contakm). Da quel momento era ansia, terrore puro e la corsa a parlare con Roberto Bergamo il presidente. Telefonate in tutti il globo e l'incertezza, fino all'ultimo, di poter rintracciare un sostituto dell'oggetto dimenticato. Personalmente non sono mai riuscito a portarmi dietro tutto e ho sempre dimenticato almeno un oggetto a casa. La soluzione l'ho poi trovata, anche se non sempre è stata delle migliori. Ricordo ad esempio di aver affrontato una gara con i mocassini (che, ovviamente, non c'era modo di agganciare o legare in qualche modo ai pedali), un vero calvario (anche e soprattutto per le prese per il sedere dei compagni).

Altro momento di alta ilarità era il discorso al microfono del Presidente: orari, organizzazione, auguri. Roberto era un grande e ci metteva veramente l'anima. Non era però un oratore di primo livello e ogni tanto scivolava in qualche strafalcione che faceva esplodere la platea in applausi scoscianti di cui non credo abbia mai capito il motivo (scrollava la spalle, si girava verso la moglie e la guardava interrogativo "che cosa avranno da applaudire?").


Ovviamente l'argomento principale era la gara del giorno successivo. Si sfogliavano le riviste (Granfondo, Cicloturismo), si studiavano le altimetrie e si ascoltavano con attenzione i consigli di chi aveva già partecipato a quella manifestazione. Si raccontavano le salite: il Manghen, il Pordoi, il Bracco, il Giau. Sul pullman sembravano tutte enormi e invincibili. Pensano che il giorno dopo sarei stramazzato a terra prima di raggiungere la prima vetta. Avevo così paura che poi, mentre affontavo quei tornati in gara, tutto mi sembrava più facile. Altri, meno testardi di me, si facevano convincere dai ciclo-terroristi e il giorno dopo non partivano proprio.


Eravamo persone di tutte le età, dai 25 anni ai 75, di tutte le estrazioni sociali e occupati in mestieri e professioni di ogni genere. Qualcuno parlava un italiano perfetto, altri non sapevano mettere in fila due parole. Eppure, davvero, eravamo tutti uguali. Tutti accomunati dalla stessa passione. I valori cambiavano ed erano tarati sulla passione comune. Laurea, diploma, salario, ricco, povero, lavoro o disoccupazione non contavano più nulla: il più stimato era quello più veloce, più resistente, quello che aveva più chilometri nelle gambe o che aveva scavalcato più montagne.

Eravamo alienati e fanatici.

In quei tre anni da granfondista ho visto più divorzi e separazioni dei dieci anni successivi. Un avvocato accorto avrebbe fatto un affare a distribuire biglietti da visita nei pacchi gara o nei parcheggi dei pullman. E' impossibile capire e convivere con la follia di un ciclo-pazzo. 
Era impossibile continuare ad allenarsi in quel modo (10.000 km all'anno), gareggiare praticamente tutte le domeniche e costruirsi una vita familiare o sociale.

Be' cari ciclo-pazzi, non potete sapere quanto i vostri volti, le vostre bici-gioiello e le nostre fanfaronate abbiano riempito i miei sogni di questi dieci anni passati. Anche se sono fiero delle scelte fatte, della mia bellissima famiglia (non si può essere un granfondista, un medico, un padre e un marito contemporaneamente!), anche se rifarei tutto quanto ho fatto mi mancherete sempre.

Grazie per avermi fatto crescere e sognare così tanto.

Un pensiero poi a quelli che non ci sono proprio più (ultimo Franco il "giornalista", Sergione).

giovedì 6 febbraio 2014

Il gene del campione

Torino, 7 febbraio 2014 - bici 147.8, corsa 108.8, nuoto 13.85 km


Tutti abbiamo un amico che (così dice lui) non si allena o si allena poco e inevitabilmente ci batte, qualsiasi sport si faccia.
Vero, vero, la gara è contro se stessi... ma brucia farsi superare!

Allora ci si chiede fino a che punto conti l'allenamento e fino a che punto la predisposizione individuale.


Allenamento o genetica? Il campione è nato per essere un campione (almeno potenzialmente) o chiunque potrebbe diventarlo? Marco Pantani era forte dei geni dati da mamma Tonina o grazie alle piadine, al pedalate in riva al mare e al suo carattere?

Già, per non parlare poi del legame tra razze e discipline sportive: runners neri, nuotatori bianchi. Un legame casuale, dettato dall'ambiente o dal DNA?

Un argomento delicato, anche da un punto di vista etico. Si è visto che il patrimonio genetico tra le diverse etnie è praticamente identico. Eppure è possibile che oltre ai tratti somatici e alla pigmentazione della pelle, qualche piccolo gene determini qualche differenza anche nelle prestazioni sportive.

Così in questi giorni mi sono attaccato al pc, mi sono collegato a pubmed e mi sono letto qualche articolo scientifico al riguardo.

Una totale confusione. Si trova di tutto e altro ancora. Mille conclusioni differenti, ipotesi e poche certezze.
E' un argomento troppo ampio, da pubblicare in un enorme libro o al limite in una tesi di laurea, non certo in un blog semi-serio. Sono argomenti che richiederebbero uno studio approfondito e non una lettura distratta.

Qualche spunto...

Mi pare di capire che le teorie viaggino tra due ipotisi estreme ed opposte: quelle del condizionamento ambientale (che giocherebbe un ruolo principale nel maturare un campione) e quella della genetica (dove preponderante sarebbe invece il corredo genomico).

A sostegno della teoria "genetica" ci sono sicuramente alcune considerazioni epidemiologiche. Per quanto riguarda il running è impossibile non notare la prevalenza di campioni di colore. Su 13 ori olimpici nei 100 metri ben 10 sono stati vinti da campioni afro-americani o dei caraibi. Per quanto riguarda invece la corsa sulle lunghe distanze è notoria la prevalenza di atleti keniani o etiopi.
Sembra poi che tra i Keniani esista una tribù, quella dei Kalenjin, che (oltre ad avere dato il nome all'abbigliamento podistico di Decathlon) da sola abbia vinto il 75% degli ori vinti dal Kenia. Il 44% degli runners kenioti internazioni è costitutito da una sotto-tribù dei velocissimi Kalenjin, detta degli (ultraveloci) Kipsigis. I Kipsigis rappresentano il 3% dei kenioti totali.
In altre parole, anche in Kenia, sembra che esista una minoranza, in grado di correre più veloce degli altri.
Al momento però sembra che nessun ricercatore sia riuscito a trovare, in questi "campioni di razza" dei marcatori genici correlati alla capacità di correre.

Al di là degli studi di laboratorio, poi, anche a livello epidemiologico bisogno valutare una serie infinita di altre variabili: la dieta, le abitudini, l'altitudine eccetera. Chissà, magari i velocissimi Kipsigis (che vivono in ogni caso in altura) sono abituati a nutrirsi con supernoccioline o criptonite e devono la loro velocità a questo e non al proprio genoma....

Insomma, la scienza per ora non ha dimostrato nulla.

Genetica o acquisita, esiste una predisposizione individuale a uno sport determinato. Quanto questa conti e quanto invece sia importante l'allenamento è difficile da stimare (qualcuno la valuta intorno al 25%, altri al 50%).
In ogni caso pare che sia preponderante il condizionamento (allenamento).

Personalmente spero che il "gene del campione" non venga mai scoperto, in modo da lasciar spazio al sogno.
Si tratterebbe di una sorta di "doping intrinseco" dove ci solo i predestinati avrebbero diritto al sogno di gareggiare e superare i limiti.

Mi piace pensare che tutti abbiano le stesse potenzialità e che stia alle proprie scelte svilupparle nel modo migliore.
Anche se è probabile che in realtà non tutti abbiano nel mazzo le stesse carte, il bello è proprio giocare senza saperlo.


Consiglio di leggere...
The genetic basis for elite running performance.
Tucker R, Santos-Concejero J, Collins M.
Br J Sports Med. 2013 Jun;47(9):545-9. doi: 10.1136/bjsports-2013-092408. Review.

sabato 1 febbraio 2014

La Sgraziellata, gara clandestina

Torino, 2 febbraio 2014, bici 147.49, corsa 98, nuoto 10.1 km



Due anni fa.

Primavera, mi trovo a Casalborgone, vestito in mimetica, da militare. Scendo come un pazzo da un sentiero, alla prima curva partono i pattini dei freni anteriori e quelli posteriori non rispondono. Prima delle curve freno con gli stivali.

E' una gara a cronometro e ce la sto mettendo tutta. E' in discesa ma in alcuni tratti c'è da pedalare. Ho il cuore a mille. Sbaglio una curva e mi fermo contro un albero. Spero che finisca presto.


Ecco uno striscione, in una radura... "il traguardo!" penso. Poi vedo che il sentiero continua. Sbucano cinque figuri, vestiti come i protagonisti di Arancia Meccanica. Mi prendono a mazzate, letteralmente.
Non mi faccio spaventare, schivo e continuo. Ancora qualche curva ed ecco il traguardo, quello vero. Piombo sul pubblico senza freni e mi fermo dopo aver schivato donne, bambini e altri concorrenti già scesi.

Guardo la mia bici, la mia Graziella... a pezzi.

Già, la Sgraziellata è una gara di discesa con le Grazielle. Una gara clandestina che da 10 anni viene organizzata a Casalborgone, a 30 km da Torino. Tanta goliardia e tanto agonismo.
I concorrenti si presentano in maschera o con le protezioni da moto-cross. Donne e uomini di tutte le età. Qualcuno vestito da donna, altri da supereroe.

Mentre i Carabinieri fanno finta di non vedere ci si ammassa sul pianale di tre o quattro camioncini e si sale verso la cima della collina da dove, dopo il rito banzai, si scende.

Il rito consiste nel costringere il concorrente a bere "succo d'uva fermentato" (la parola "vino" è proibita, ovviamente... chi berrebbe del vino prima di una gara?).

Arrivato l'ultimo concorrente si parte per la parata in paese. Tutte le Grazielle a girare nelle due vie di Casalborgone, cercando di fare più casino possibile. Fischietti, claxon e qualcuno che ha montato sulla Graziella una vecchia sirena della seconda guerra mondiale, quella che serviva a segnalare i bombardamenti.

Questa'anno pare che cada il decennale della gara e gira voce che gli organizzatori stiano tramando per qualcosa si speciale.

Sto tremando.


 SITO UFFICIALE DELLA SGRAZIELLATA